Un libro che come lo inizi ti trascina nella trama letteraria e nella potenza dei sentimenti che sa mettere in circolo. Passione e preoccupazione, paura e forza d’animo, cedimenti e resistenza fisica si intrecciano in modo mirabile aiutandoci ad entrare nella storia della protagonista. Una giovane donna colpita dal cancro, “l’anarchico male del ventesimo secolo” come lo definisce Manuela Quaranta Spacapan nella prefazione. Una provetta escursionista che abituata alle asperità dei monti lotta con la sua malattia non lasciandole spazio per sovrastarla. Una moglie ed una madre più preoccupata a proteggere i suoi cari che a farsi compatire da loro. E attraverso qualche veloce pennellata, la medicina con le sue mille sfaccettature. Una sanità che dà speranza e toglie sicurezze, offre informazioni e centellina conoscenze, sorregge e dissimula. Si evidenzia dunque una sfaccettata capacità dei sanitari a prendersi cura del paziente che prima di tutto è una persona con la sua esistenza. Individuo che ha una storia, che sta vivendo la sua storia. Una sanità alle volte sulla difensiva e altre volte più umana. Una scienza che mostra le sue fragilità, ma anche le sue avanzate competenze. Un ospedale che cura corpo-mente o scinde il fisico dallo psichico. Nel libro però la nostra paziente è una combattente e non si lascia mai sconfiggere dagli atteggiamenti poco rispettosi.
Tutto questo però successe un tempo.
Credo che il vero valore di questo testo sia la narrazione dell’esperienza, cioè la capacità di dare parola agli stati d’animo, di narrare le paure, di mostrare le risorse. Operazione questa di natura pedagogica, così com’è l’Autrice. La malattia non diventa allora più l’estranea che colpisce il corpo, ma una parte di sé con cui convivere e a cui parlare. E Cosolo Marangon mostra allora come un trauma, qual è un tumore che viene ad assediare il proprio corpo, segni un prima e un dopo nella propria vita che mai si ricongiungeranno. Ma sono due epoche della propria identità che possono essere unite tra di loro da un ponte costruito attraverso le parole che curano proprio perché sono raccontate. La necessità di narrare diviene allora urgenza emotiva e testimonianza da condividere, ma soprattutto evidenza che far emergere “le parole per dirlo” è cura in se stessa.
Grazie Paola di averci insegnato una via importante da percorrere in solitaria, come fai nelle tue tanto amate montagne, quando la vita ci ricorda il nostro essere mortali, limitati, fragili. E allora adesso riprendi ad arrampicare, incollati alla parete, gusta la fatica del salire come nel libro ti auspicavi quando ancora non eri guarita.