È Natale. Ci sto pensando da un po’ di giorni, sto cercando un significato per i bambini e le bambine di oggi. Mi sembra che, perdendo il senso del Natale, ovvero celebrare la nascita di un piccolo Bambino, per i credenti Figlio di Dio, si stia smarrendo la magia tanto cara ai più piccoli. Le richieste di bimbi e bimbi a quello che è ormai il protagonista del Natale, quel signore cicciotto vestito di rosso con la lunga barba bianca che guida una slitta condotta da renne volanti, sono sempre più incredibili. Una mamma l’altro giorno mi ha mostrato desolata la lettera che il figlio, terzo anno della primaria, ha scritto a Babbo Natale. La richiesta era di oggetti del valore di almeno 2000 euro e il problema della mamma era: come faccio a dire che Babbo Natale, in questo momento, non ha tutti questi soldi? Non era stupita dalla richiesta molto esosa bensì del fatto che non sarebbe stata in grado di soddisfare il desiderio.
La bella parola sobrietà, che ogni tanto si sente rispolverare da qualche filosofo, non abita più nelle nostre case. Continuiamo a sentir parlare di crisi, di bollette astronomiche, di carburante alle stelle, ma la parola sobrietà fa fatica ad albergare nel nostro vocabolario. E dire che i bambini, per loro natura, sono disponibili ad accontentarsi di poco, se quel poco fa parte delle abitudini familiari.
Lo so che non si devono ripercorrere le storie del passato, un passato legato al secolo scorso e dunque troppo lontano per poter essere un elemento di paragone però…
Però…il Natale dove si attendeva la nascita del piccolo Bambino era un Natale davvero speciale. Il calore del fuoco attorno al quale ci si ritrovava la vigilia a mangiare noci e mandarini ascoltando e cantando le classiche canzoncine. Per me bambina non erano le varie jingle bells bensì quelle della tradizione delle mie montagne, cantate in lingua friulana, quelle nenie lunghe e spesso con parole poco comprensibili ma assolutamente magiche. La trepidazione dell’attesa, la letterina scritta qualche giorno prima e posta sotto l’albero, rigorosamente un abete vero che poi piantavamo nel giardino dietro casa, tanto che oggi c’è un piccolo bosco di abete rosso che ci regala ossigeno.
I dolci fatti in casa, alcuni proprio preparati durante la vigilia: i biscotti di pan di zenzero della tradizione austriaca e i racconti della nonna, anzi: finchè era viva i racconti della bisnonna, sempre accompagnati da quella giusta dose di suspance che faceva scorrere il brivido lungo la schiena.
Gli adulti aspettavano la mezzanotte, noi bambini no, andavamo a dormire cercando di vincere sul sonno, perché volevamo aspettare Gesù Bambino e speravamo di sorprenderlo mentre si portava via la nostra letterina e lasciava il regalo.
Non lo abbiamo mai visto, ci siamo sempre addormentati prima ma la mattina di Natale, con somma disperazione dei nostri genitori, ben prima delle sette eravamo in piedi, pronti a verificare se la letterina se ne fosse andata.
Mentre scrivo queste che possono sembrare sciocchezze, rivivo l’emozione di quelle mattine, il profumo dello strudel e del pane appena sfornati, la nonna che andava a Messa prima e il ciocco nel camino che era rimasto acceso tutta la notta per riscaldare il bambinello. Mi piacciono ancora oggi queste nostre tradizioni, il tronco di Iesse simboleggiato dal ciocco più grosso conservato e acceso la vigilia che doveva ardere fino al mattino, una faccenda simbolica che trova radice proprio nella nostra cultura ma che spesso viene dimenticato. L’odore di arance seccate al forno, tagliate a fettine e utilizzate per decorare i pacchi regalo o appese sull’albero di Natale. Meno plastica, meno fronzoli. L’albero di Natale era sempre lo stesso, con le decorazioni tramandate da generazioni. Oggi addobbo l’albero con parte di quelle decorazioni, metà a me e metà a mia sorella nell’equa distribuzione, così come le statuine del presepe, e altre decorazioni che abbiamo acquistato da quando abbiamo creato famiglia. Resteranno a nostra figlia e anche lei continuerà questi piccoli riti. Non perché noi glielo abbiamo chiesto ma perché stiamo vedendo che quella parola magica, sobrietà, sta abitando nella casa di questi giovani sposi, in attesa oggi del loro primo bambino.
La magia di quando ero piccola io l’ho in qualche modo passata anche alla figlia e oggi quella parola, sobrietà, abita nel modo di porsi di questi giovani sia nel mondo del lavoro che nella loro quotidianità.
È una parola vincente, che consente di saper stare al mondo considerando che ci deve essere posto per tutti, spazio per tutti e capacità di condividere.
La parola sobrietà significa imparare a stare dentro una cornice sostenibile, dove esiste il rispetto per gli altri, per Madre terra, per l’ambiente. La parola sobrietà si sposa benissimo con la parola accoglienza e dunque per questo Natale, l’augurio che mi sento di porgere a tutti e tutte è proprio questo.
Impariamo a far albergare la sobrietà a casa nostra, saremo più disposti ad accogliere e a condividere.
Buon Natale!