Articolo del 2 marzo 2015

Annualità PranaVidya

LA LUCE CHE SI ACCENDE

“L’uomo che, abbandonando tutti i desideri, va e viene, libero da attaccamento, non dice più: “È mio” né “Io”; quegli accede alla pace”.
Bhagavadgītā, canto II – 71
Vidya, un nuovo approccio
Prima lezione dell’annualità Prana Vidya.
Cambiare approccio rispetto alle annualità precedenti è una sfida a rompere con automatismi sempre in agguato. Con Vidya si accede al mondo dell’osservazione con una componente tutta singolare: astenersi dal giudizio. Le annualità di Kundalini e Kriya prevedevano l’utilizzo della conoscenza, del ragionamento, dello studio, con Vidya si accede al mondo dell’esistente, di quello che c’è indipendentemente da me. E’ ovvio che il nuovo approccio possa incuriosire ed attivare quella risorsa interna in ciascuno di noi presente ma difficilmente consapevole.
Il giudizio come sistema valutativo
Vidya propone di entrare nella logica dell’osservazione profonda senza giudicare. E’ una logica aliena al nostro tempo, siamo abituati fin dalla tenera età a fare le cose in funzione della valutazione esterna, come fossimo costantemente sotto esame. Il bambino mentre compie le proprie azioni osserva l’adulto e attende un cenno di approvazione; già da piccolissimo impara che il giudizio degli altri è importante, altrettanto impara che può essere castrante o inibente.
Questa logica valutativa viene rafforzata da un sistema scolastico volto al raggiungimento dello sviluppo meramente cognitivo; difficilmente ci si trova davanti ad insegnanti pronti a tenere in considerazione le intelligenze multiple dell’individuo. Questo back ground giudicante ce lo portiamo dentro e impariamo – nostro malgrado – a utilizzarlo anche nei confronti di noi stessi.
La proposta di utilizzare un’osservazione esclusivamente per “vedere” che cosa sta accadendo, senza cedere al tentativo di pensare che ci sia qualcosa di sbagliato o di brutto, o di bello, è assolutamente interessante.
Rompere schemi
A piccoli passi ci si può allenare per imparare ad osservare con gli occhi della mente, utilizzando tutto quanto è in nostro possesso, ovvero tutte le nostre facoltà percettive sviluppate fino ad oggi. Iniziando con il respiro, ad esempio, si può scoprire un mondo nuovo, un mondo che in realtà è sempre esistito dentro di noi – siamo noi – ma non si era mai svelato.
Osservare senza giudicare è essere disposti a rompere schemi precedenti, liberarsi dal laccio del già conosciuto per aprirsi alla novità data dalla scoperta di qualcosa che non conoscevamo.
Punto di forza è il non voler modificare, ma attivare antennine fresche, appena nate, perciò curiose.
La luce in soffitta
A proposito di rottura degli schemi: in una proposta di osservazione del respiro, della sua espansione, della sua profondità, ho avuto la netta sensazione di vedere accendersi una luce dove prima era notte fonda (o inesistenza della parte perché forse mai considerata).
La proposta era la seguente: inspirare sollevando le braccia lateralmente e in contemporanea sollevarsi sulla punta dei piedi, in fase espiratoria scendere con le braccia e riappoggiare i talloni a terra.
Il cambio di schema proponeva di osservare che cosa accade quando si invertono movimento e respiro, quindi con l’espiro ci si solleva sulle punte dei piedi e si sollevano le braccia lateralmente e con l’inspiro si scende.
E’ lì che si è accesa la lampadina: il movimento inverso andava in totale controtendenza rispetto a quello che avevo sempre fatto. L’elevarsi inspirando era qualcosa di naturale e – adesso me ne rendo perfettamente conto – automatico. Per quanto mi sforzassi di osservare, il tutto andava liscio ed entrava nella logica delle cose conosciute. Nel momento in cui si è rovesciato lo schema ho avuto la netta percezione di scoprire una nuova porzione dei miei polmoni, ho sentito il respiro arrivare in un luogo fino a quel momento sconosciuto. Da lì è stato estremamente interessante “giocare” con il respiro, cogliere l’intensità, la profondità, la sottigliezza piuttosto che la forza. Quella porzione dei miei polmoni è sempre stata lì ma non avevo ancora indossato l’occhiale adatto a vederla.
La frustrazione che aiuta a crescere
La proposta di cambiare prospettiva, movimento inverso al noto, all’usuale, pone una frustrazione, ci si trova di fronte ad un qualcosa che mette in difficoltà, allora arriva spontaneo il voler giudicare il tutto, disponendosi già in maniera oppositiva al percorso. Quando ci si libera da questo e si vive l’esperienza scevri dal giudizio, ecco che si accende la “lampadina”, aperti a nuovi esiti, si scopre che la frustrazione può diventare un incentivo, l’importante è non volerla rubricare subito come negativa, ma aprirla alla possibilità.


IL RESPIRO NELLE CLAVICOLE:DA “A-VIDYA” A “VIDYA”.

“Mai in effetti, fosse anche per un solo istante, nessuno è rimasto senza compiere qualche azione; perché, suo malgrado, ciascuno è costretto a rendersi attivo sotto l’effetto dei fattori costitutivi della natura”Bhagavadgītā, canto III – 5
Il nostro respiro avviene senza che noi ci pensiamo , è una di quelle attività fisiologiche che ci accompagnano fin dalla nascita e purtroppo siamo portati spesso a non tenerne conto. Ci lasciamo respirare più che farlo consapevolmente. Il respiro che avvertiamo maggiormente è senza dubbio quello nella pancia e nella parte mediana del torace, il resto rimane inconsapevole, è come sepolto da un velo di polvere.


Tutti inconsapevoli

“A-vidya” ci caratterizza, non portiamo facilmente la nostra attenzione al respiro se non per motivi somatici significativi, un dolore intercostale, un indumento troppo costrittivo (ad esempio un reggiseno con l’elastico stretto se siamo donne), una postura forzata che fa contrarre alcune zone impedendo il fisiologico fluire dell’aria.
Escludendo questi casi il resto rimane sepolto, svanito. Siamo per la maggior parte dei casi inconsapevoli e ci lasciamo respirare senza tener presente che “a-vidya” in senso respiratorio può essere portatrice di somatizzazioni e chiusure della mente, oltre che delle posture.


La gola sede della purificazione della mente

Nella considerazione del nostro respiro è importante tenere presente che la zona della gola, quella contattata da un respiro che si situa nella zona alta del petto, è quella preposta alla purificazione della mente. In questa zona – sede di vishuddi – avviene la consapevole comunicazione verso l’esterno E’ qui situata la zona di confine tra il mondo di prana e quello più “alto”dove prana non è più presente, dove prana dovrebbe essere filtrato nella sua caratteristica pregna di emozione.
Attraverso questa ideale “porta” la nostra mente può essere purificata e giungere alle zone soprastanti depurata da tutti quegli elementi caratteristici del mondo duale.
La respirazione a questo livello è difficile da portare o quantomeno a livello fisiologico avviene in pochi momenti. Diventa molto importante riuscire a condurre la consapevolezza su questa zona proprio per evitare somatizzazioni e consentire un buon ritmo al respiro stesso.


Il ritmo quale elemento fondante del respiro.

Tutto quello che accade dentro il nostro corpo è caratterizzato da un ritmo, il battito del cuore, l’andirivieni del respiro, la peristalsi, il sonno e la veglia, il cibarsi e l’evacuare. Il ritmo è espressione della vita stessa, tutto quello che sta fuori dal ritmo è distonico.
Tutto dovrebbe rispondere ad un ritmo armonioso tale da creare quella condizione di fluidità e naturalezza a tutte le azioni, quelle consapevoli e quelle meno.
Ascoltare il nostro respiro e dargli un ritmo aiuta a ritrovare quella componente forse smarrita nel corso del tempo: la spontaneità e la forza. Un respiro spontaneo corrisponde ad una corretta espansione toracica, ad un abbassamento del diaframma e ad un ritorno in espirazione non interrotto bensì fluido. Il respiro spontaneo è quello messo sotto osservazione nella pratica vidya, nel momento in cui lo osservo, senza giudizio, senza desiderio di cambiarlo, automaticamente si modifica, si allunga, si espande.
Dal respiro inconsapevole al respiro consapevole il passo non è faticoso e garantisce quella serie di benefici prima riscontrabili a livello fisico e poi, con il tempo e la costanza, a livello psichico e mentale.


RESPIRO E CONSAPEVOLEZZA DI SE’

“Quando si rinuncia a tutti i desideri che turbano il cuore e la mente, o figlio di Prthā, quando si è appagati in se stessi e da se stessi, ecco quel che si dice “essere consolidato in saggezza”
Bhagavadgītā, canto II – 55


Molto illuminante la terza lezione di Prana Vidya, soprattutto se messa in relazione con il mio lavoro. Due sono state le “scoperte” interessanti di questo appuntamento, la prima è l’aver trovato una corrispondenza ad alcune osservazioni che avevo fatto, la seconda una piacevole sperimentazione che non avevo ancora incontrato.


Quando il respiro parla di me

Osservando le persone che vengono in consulenza, spesso mi capita di soffermarmi ad osservarle come respirano. A parte chi ha il respiro un po’ affannato perché colto da emozioni o da stress contestuale al momento, capita di osservare persone che in base alla conoscenza di se stesse, alla capacità di gestire le loro emozioni, di considerarsi o meno capaci, interessanti, valide (autostima più o meno bassa) portano un respiro veloce, con molte interruzioni, con qualche affanno, con lunghi inspiri, con trattenimenti.
Aver trovato nello yoga una corrispondenza a queste mie osservazioni mi fa dire che sto iniziando a capire alcuni meccanismi e lavorarci può contribuire senza dubbio a migliorare non solo me stessa ma anche il mio lavoro.
A partire dalle osservazioni degli altri mi sono focalizzata molto nell’attenzione ad osservare me, mentre sto lavorando, mentre comunico con gli altri, mentre svolgo attività dove mi è consentito soffermarmi anche su di me.

Respiro e corpo assieme

Mi sono resa conto che il respiro corto mi caratterizza, forse in maniera inconsapevole ho imparato a “tenere fuori” lo stress esterno, portato dagli altri e a concentrarmi su di me a partire da consapevolezza corporea e respiratoria. Il corpo non può essere dissociato dal respiro e a mio avviso la respirazione solo corporea senza veder abbinata quella psichica è in qualche modo fallimentare. Il controllo delle emozioni risulta molto più facile quando avviene una consapevolezza psico-corporea, siamo impastati di materia ed emotività.


La scoperta di un modo diverso di respirare

Per quanto riguarda la rivelazione, ho “assaggiato” con molto gusto l’estensione in altezza e profondità del respiro. Estendere il respiro fino al perineo, sentire il perineo che respira e poi accompagnare il respiro sempre più in alto, fino alla zona clavicolare è stata un’esperienza molto forte.
Riprovando più e più volte mi sono accorta di provare un senso di energia (inteso in senso di energheia, composto da en intensivo e ergon opera, azione).
Anche l’espansione è molto forte, consente di centrarsi maggiormente su di sé e in qualche modo delineare lo spazio personale, una sorta di perimetro ideale tra la “giusta distanza” con il mondo esterno e la corretta accettazione di un mondo interno.


ARMONIA E DISARMONIA DEL RESPIRO: PENDOLARE O CIRCOLARE?

“Agli asceti distaccati dal desiderio e dalla collera, la cui mente è padroneggiata e che hanno la conoscenza del Sé, si offre l’estinzione nel Brahman”
Bhagavadgītā, canto V – 26

Lavorando nella quarta lezione di Prana Vidya sulla qualità del respiro, si è andati a contattare il mondo sottile, quel “sukshma” che è inafferrabile ma al contempo percepibile, se si attiva Vidya.
Qualità del respiro può essere capacità di contattare il proprio mondo interno, Jung direbbe : “facoltà di stare con il proprio ES”. La cosa più interessante è che ognuno di noi lo può fare, basta volerlo fare, mettendosi nell’ottica dell’ascolto non quantificabile, né misurabile.


Armonia o ridondanza del flusso?

Saper distinguere la qualità del flusso respiratorio è mettersi in gioco profondamente ed aprirsi a quell’ascolto di sé stessi che va al di là della percezione fisica. Ognuno di noi può percepire un flusso respiratorio ridondante nel momento in cui è affannato o nervoso. Diverso è cogliere il flusso respiratorio per analizzare il momento in cui nasce e muore, ma soprattutto nel momento in cui cambia intensità, passando dal flusso al deflusso. C’è un momento maggiormente grintoso, in cui il respiro cresce per diventare “adulto” e un momento in cui cala, per spegnersi verso quel nulla da dove ripartirà.
Il punto di equilibrio, quel momento adulto e maturo, quello è forse l’attimo più sottile e delicato da catturare, è quell’immobilità che consente di sentirsi in equilibrio. Riuscire a coglierlo, a fermarlo, ha senza dubbio una forte valenza psichica. Ci sono poi i due punti, la partenza e l’arrivo che consideriamo morti. Immobili. Mi sorge una domanda: c’è una strada di andata e ritorno e una ripresa dopo la stasi?


Pendolare o circolare?


Osservando il flusso respiratorio passiamo anche quel punto della nascita/morte. La proposta è quella di ascoltare il flusso associandolo al movimento del pendolo, oscillatorio, con l’inerzia del ritorno. Io faccio molta fatica ad osservare il mio atto respiratorio in questo senso. Nella percezione del mio respirare, il mio respiro inizia virtualmente in un punto posto in basso, c’è il crescente come di luna, un punto mediano di immobilità. Un decrescere che continua a disegnare il crescente di luna; attimo di sospensione, vuoto, poi l’espiro si forma dall’altro lato della sfera, con un primo moto dal flusso più intenso, pausa di equilibrio e rallentamento fino a morire.
Io lo sento così, non troppo inerte nella parte espiratoria, bensì presente in una logica circolare così come la mia percezione delle stagioni, dei mesi dell’anno, dei giorni della settimana. Circolarità.
Forse dovrò semplicemente imparare a spostare la mia capacità percettiva orientandola in una forma diversa di osservazione.


FORZA ED IMPORTANZA DEI MANTRA NELL’ESPIRO

“Colui che vede che gli atti sono prodotti dalla natura, e altresì che il Sé non è agente, quegli vede (giusto).”
Bhagavadgītā, canto XIII – 29

L’interesse per l’osservazione del respiro aumenta via via che si intensificano gli argomenti e la sperimentazione con la pratica.
Contrariamente al mio solito, ho scritto questa relazione dopo quasi un mese dalla quinta lezione, ho avuto bisogno di metabolizzare e praticare prima di mettere su carta alcune riflessioni.
Un primo elemento di riflessione è partito già durante la lezione in classe, quando l’insegnante ha sottolineato che il primo atto respiratorio del neonato è l’espiro. Mi si sono subito accavallate informazioni antiche, quando da sempre l’insegnante di liceo ci aveva detto che alla nascita si inspira ed è l’espiro che determina la morte. Così ho sempre creduto e pensato e questa cosa mi è frullata in testa per un po’ fino a che, con la cocciutaggine che mi contraddidistingue (sob!) sono andata a verificare.


Espirazione e contrazione muscolare

Il primo atto alla nascita è una sorta di colpo determinato dalla forte azione muscolare dei muscoli respiratori. I polmoni sono chiusi, sigillati, il feto ha una circolazione sanguigna veicolata dal flusso indotto dalla madre attraverso il cordone ombelicale. Non vi è respirazione nel feto, ovviamente, è un pesciolino e all’atto della nascita la prima urgenza è far partire la circolazione autonoma, entrambi i ventricoli cardiaci devono aprirsi per consentire il corretto flusso e di conseguenza il respiro si deve attivare per consentire il flusso respiratorio che aporta ossigeno nel sangue e avanti con il ciclo della vita.
Non è un espiro quindi il primo atto ma un “colpo” cha fa partire il pianto a cui fa seguito il primo vero atto che è l’inspiro, cioè l’introduzione di aria nei neonati polmoni.
Ancora più affascinante, il primo gesto è un bastrika, svuotamento totale per poi consetire all’aria, potente, quasi prepotente di aggiungere vita vera al piccolo bambino.
Affascinante perché è la storia di ognuno, di ogni mammifero.
Sembra incredibile poi il respirare del neonato dopo solo pochi attimi: un respiro calmo, lieve, leggerissimo e delicato, senza sforzo, grazie alla potenza dei muscoli respiratori che sono tonici e rispondono meravigliosamente alle funzioni richieste.


Espiro attivo e passivo

Con la pratica legata a Pranavidya si ha l’occasione di prendere piena consapevolezza della nostra pigrizia respiratoria, di quanto la nostra respirazione sia passiva per una sorta di abitudine a “lascirci respirare”. Lontano il tempo in cui, da bambini, anche il nostro espiro era potente perché la nostra muscolatura era tonica e attiva.
Ritrovare il proprio espiro e lavorarci è, una volta ancora, una interessantissima scoperta.
Abbiamo muscoli che possono consentirci di governare la nostra respirazione, abbiamo la possibilità di guidare l’espiro conducendo l’aria in profondità, in maniera sottile e lunga, senza essere affrettati, senza per forza voler “finire subito”. Caratteristica del nostro tempo.


Usare i mantra per aggiungere consapevolezza respiratoria

Come molti praticanti yoga anch’io faccio uso dei mantra, nell’annualità Kundalini ho approfondito gli effetti del bija-mantra ma non mi sono mai soffermata sull’osservazione del respiro.
In questa quinta tappa di Pranavidya, ho esplorato la nuova risorsa e ho constatato quanto, in effetti, il mantra aiuta ad allungare l’espiro, ma non solo quello (of course).
Dopo cicli respiratori con la recita dei mantra non solo il respiro diventa più “vivo”, la sensazione è quella di una sorta di “vivificazione” di tutto il corpo e una sorta di “pulizia” del cervello, come se, grazie ad un espiro più lungo ma anche più tonico, avvenga una sorta dei purificazione della materia grigia.
Una considerazione interessante che mi deriva dalla pratica: ho seguito vari corsi di Pranayama con un monaco tibetano, ora colgo la differenza con Pranavidya!
Ed è tutto dentro di noi, in noi. Non è meraviglioso?


IL RESPIRO COME ENTROPIA: NUOVO EQUILIBRIO DAL DISORDINE ALL’ORDINE

“Il tempo non esiste è solo una dimensione dell’anima, il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante inesistente di separazione tra passato e futuro”
Sant’Agostino

Sesta relazione Pranavidya, molti gli stimoli che hanno attivato sia la pratica e il corpo che la mente/cervello. Poter riflettere su diversi approcci, guardando ciò che è da diverse angolature, senza giudizio, è senza dubbio una ghiotta opportunità. Questa lezione, (no è più corretto dire questa dispensa), mi ha sollecitato a ripescare e ripensare cose già note per metterle a confronto con cose nuove e ancora sperimentare con la pratica ciò che solo vivendo si può affermare. A differenza delle altre volte, ho aperto la mia riflessione con una citazione di un filosofo cristiano, perché mi piace leggerla all’esterno del contesto in cui viene abitualmente utilizzata. Io l’ho riletta pensando al significato dell’immobilità del tempo come di quell’infinitamente piccolo, quell’attimo, quella briciola che ti può essere concessa, più o meno consapevolmente, di vivere tra un atto respiratorio e l’altro. E’ quel tempo che ho immaginato di contare e da quell’idea di tempo ho sviluppato il mio pensiero.


Da JHWH a Brahma

Trovo estremamente interessante poter fare una sinossi tra le varie narrazioni della creazione dell’uomo e del mondo. Lavorando sul respiro, o spirito o prana, è interessante vedere come possano corrispondere alcuni tratti anche se culturalmente posti in maniera diversa.
Penso a quella terra, anzi a quella polvere che ha costituito la materia del primo uomo, di quell’Adàm -tratto dalla terra (Adamah significa terra in ebraico). Adàm era un fantoccio di polvere, diventa essere vivente nel momento in cui JHWH insuffla la sua ruàh, il suo spirito. Adamo diventa animato perché tenuto vivo dal respiro divino che mai smette, mai si dimentica di respirare. Scopro che Brahma crea kalpa attraverso il prana e tutti gli essere che lo abitano, uomini compresi, sono animati da quello stesso soffio che dona vita e distrugge.
Con il nostro respirare, spesso inconsapevole, spesso automatico in realtà permettiamo a questo respiro cosmico di entrare ed uscire da noi, consentendoci di essere animati e cadaveri al tempo stesso.
L’inspiro accoglie l’insufflare divino, l’espiro consente di sperimentare per una frazione di secondo la distruzione (pralaya), la morte appunto.
Con un unico atto respiratorio nasciamo e moriamo, sperimentiamo il tutto in un solo momento e questo credo sia molto interessante da cogliere e da meditare.
Riuscire a concentrarci sul respiro ha allora una valenza duplice, di consapevolezza umana e consapevolezza divina.


Apparente distruzione ed equilibrio ritrovato

La scoperta della possibilità di poter lasciar andare correlata all’espiro è una scoperta che aiuta notevolmente tutta l’attività psichica interna, una competenza che pian piano si acquisisce con la pratica ma che dona i suoi effetti dopo, nel corso dei giorni e delle settimane… degli anni. Imparare a lasciar andare, a non voler controllare è topico per avvicinarsi il più possibile a quel punto infinitamente piccolo dove nulla più accade e tutto può accadere.
Attivare l’abbandono attivo consente di fare spazio, creare un vuoto che può essere un vuoto più o meno consapevole, un vuoto in attesa di essere riempito.
L’inspiro è quel riempimento desiderato, quel sentirsi colmare per rigenerare e recuperare vita.
L’esperienza forte del lasciare andare l’espiro, svuotarsi completamente, forzare un pochino lo svuotamento e poi attendere, fiduciosi, quella forza dirompente che risolleva, quell’aria che riempie e avvolge al contempo. La forza dell’inspiro!


Entropia, equinozi, solstizi e respiro.

L’entropia viene definita come la misura del grado di equilibrio raggiunto da un sistema in un determinato momento. Con il nostro inspirare ed espirare creiamo un sistema di ordine e disordine, ad ogni inspiro generiamo uno squassamento e solo l’espiro con la capacità di lasciar andare, di mollare, riporta ad uno stato di equilibrio in grado di far aumentare l’entropia stessa. È affascinante pensare che anche nella Bibbia, che ha sempre contato il tempo in maniera lineare, c’è un testo che è invece caratterizzato dalla ciclicità, che tende a riportare equilibrio. Sto parlando di Qohelet, dove quella “vanità” che contraddistingue il tutto, quel disordine negativo è in realtà in attesa di un ordine positivo e la ciclicità del “tutto ritorna”, riporta ad altri cicli.
Ho già riportato il senso del respirare ciclico, del mio percepire il respiro come ciclico (elemento senza dubbio che contraddistingue il mondo greco in cui siamo infilati nostro malgrado). Quella ciclicità la possiamo ritrovare nelle stagioni e in particolare, come momento entropico, negli attimi apicali in cui, come riporta la dispensa, l’equinozio d’autunno e l’equinozio di primavera sono simbolicamente il momento di massima attenzione per l’inspiro il primo e l’espiro il secondo.
Abbiamo parlato di omeostasi come di momento di massima ricerca di equilibrio all’interno del nostro sistema respiratorio, circolatorio, pranico.
Ora introduciamo il concetto di entropia come logica conseguenza di quell’equilibrio che si può ritrovare nel momento in cui si è consapevoli che il disordine, corrispondente alla distruzione, in legame alla ciclicità del tempo precede l’ordine, il nuovo che arriva. Allora l’entropia aumenta e ci porta verso una immobilità futura, quell’immobilità che è fatta di breve sospensione o incontro con il divino.


RESPIRARE E ANDARE “AL DI LA’”

“Il sole e la luna sono i fattori che determinano il tempo composto di giorno e di notte. Sușumnā divora kāla e questo è considerato un grande segreto”
Hathapradīpikā, IV lezione, n. 17


Settima relazione Prana Vidya, continuo confronto, continui spunti, tanta pratica non sempre facile, anzi; necessità di entrare in un nuovo ordine di idee dove astenersi dal giudicare ogni più piccola azione compiuta (il respiro è azione per eccellenza ed osservarlo non è semplice) risulta una scuola quotidiana che si riflette su tutto.


Il mosaico

Durante l’estate mi sono dedicata alla lettura di Hathapradīpikā cercando di collegare le lezioni di questa annualità di Prana Vidya con il testo. In Hathapradīpikā si ritrovano i fondamenti dell’Hatha yoga e per chi come me è agli esordi, ogni pagina è fonte di stupore.
Accade che con emozione ritrovo le nozioni che in questi anni ho incontrato a scuola, è come ritrovare piccoli tasselli di un vasto mosaico che qualcuno ha sapientemente architettato. Mi piace scoprire nuove timide tessere, un po’ come fanno i bambini quando, nel comporre un puzzle, sono in grado di incastrare una formina al suo posto.


Inspir – espir e l’annullamento della morte

Nelle varie tessere trovate mi sto soffermando sulle nadi, su ida e pingala e il respiro che scorre nei canali della luna e del sole. E’ affascinante ascoltare il flusso del respiro e contestualmente entrare in simbolico contatto con candra e surya. Lo so, sono argomenti ampiamenti trattati lo scorso anno nei kriya ma recuperare quei tesori per vivacizzarli con novità mi sembra estremamente interessante. Tutto si lega, tutto si autoalimenta, si nutre non sovrapponendosi bensì intrecciandosi.
Nella settima lezione si riflette ancora sul respiro, sulla durata, sulla ritenzione, sulla circolarità. Un elemento più di altri mi cattura, quel fondersi di inspir ed espir e viceversa, quella progressione che non è mai completa interruzione (se non volontaria), quella vita che continua senza che noi ci accorgiamo.
La frase di Hathapradīpikā mi riporta alla progressione del nascere del giorno, l’alternarsi di buio e luce che possono essere associati ad inspir ed espir e al concetto di tempo. Il giorno è caratterizzato dalla luce, la notte dall’assenza di luce, se non ci fossero giorno e notte non esisterebbe il tempo.
La sospensione del respiro annulla l’azione di inspir ed espir, quindi consente di andare oltre il tempo così come noi lo sappiamo contare e ci consente di trasferirci in una dimensione “altra”. Ci avviciniamo alla morte, facciamo esperienza di morte ogni volta per poi consentirci di rinascere ancora.
Come dire: nel momento in cui la nadi fondamentale, Sușumnā è vivificata da prana si annullano sia il tempo che la morte.
E’ oltremodo interessante, al momento lo capisco con la mente, poi forse riuscirò a farne esperienza dal di dentro. Di certo, da questa comprensione ancora acerba ricavo un elemento molto importante per me, la morte non cancella tutto ma consente di esserci ancora e sempre in ciò che rimane di noi, la progenie, i ricordi degli altri, le molecole. Questo è quanto mai consolatorio in un’epoca in cui il tabù della morte fa propendere per maya, false illusioni infarcite di pseudo religione e pseudo ritualità, qualcuno direbbe, ancora oppio per i popoli.


RITMO, OSSERVAZIONE, ATTENZIONE

“Lo yogī, che inizia a sentire (il suono) nel vuoto, acquista un corpo brillante, una mente acuta, una fragranza naturale, la libertà dalle malattie, la pienezza del cuore.”
Hathapradīpikā, IV lezione, n. 71

Giunti all’ultima lezione dell’anno, metto assieme alcuni apprendimenti e concentro in un’unica relazione l’ottava e nona lezione.
Gli apprendimenti sono molteplici ed ho la netta sensazione di avere appena sollevato il coperchio del vaso di Pandora. Come ho già sottolineato in più occasioni, in questa annualità mi si sono aperti gli occhi rispetto alle due annualità precedenti, Kundalini e Kryia; è come se volta per volta io riuscissi a mettere maggiormente a fuoco concetti già incontrati che trovano sempre più significato mano a mano che si acquisiscono elementi successivi


Vidya e ritmo

Una scoperta senz’altro importante di quest’anno è stata quella di andare a riconoscere prima di tutto il mio ritmo, unico ed esclusivo. Riconoscere che il mio respiro “funziona” in un certo modo, ha un suo andamento naturale e io lo posso osservare senza tentare di modificarlo o di fornzarlo, è stato importante. Si giudica tutto e si tenta di correggere tutto, per me, darmi il tempo di osservare “e basta” è stata la molla per accettare anche cose che non mi piacciono, ma ci sono. Da questa tranquillità dell’osservazione mi è stato molto utile passare al ritmo volitivo, a tutta quella creazione di ritenzioni a pieno e a vuoto, distinguendole dalle naturali sospensioni.
Le sospensioni accadono, le ritenzioni le creo. E allora altro apprendimento interessante, il lavoro sul respiro “quadrato”, lavoro sull’elemento terra che talvolta mi vede in difficoltà. Come ha avuto modo di dirmi Laurenzi, io sono un po’ troppo testa e Muladhara chakra non era certo il mio forte. In questi tre anni ho lavorato molto su questo aspetto e la respirazione quadrata (che pure abbiamo affrontato nell’annualità Kundalini) con Pranavidya ha assunto quella valenza effettiva che mi fa dire: “inizio a stare dentro il quadrato” e per me non è poco.


Ujjayi e ritmo

Un altro apprendimento che ritengo importante per me è stato l’utilizzo di ujjayi, soprattutto nella modalità lieve.
Togliere lo stimolo alla verbalizzazione, fermare i pensieri e consentire a se stessi di concentrarsi è un aspetto che mi è piaciuto esplorare e sperimentare, tanto da inserirlo nella mia pratica quotidiana. Concentrarmi non su di un obiettivo – come accade nella quotidianità, come preparare una conferenza o scrivere un articolo o leggere una cosa – bensì sul nulla che potrebbe essere il trampolino per trovare il tutto.
E’ un’esperienza nuova ed illuminante.
Avevo incontrato più volte ujjayi “corporeo” e non avevo mai sperimentato questa modalità “alta” o lieve. Quello che posso dire di questa annualità è che è stata illuminante, ha contribuito a confermare un ardore che anno per anno aumenta. Sono molto curiosa di sperimentarmi con l’annualità di Hatha vidya e…un grazie a voi.