CHAKRAWARTIN E KINESIOSFERA
Nelle varie metafore utilizzate dallo yoga quella del chakrawartin mi intriga particolarmente. Il meccanismo che fa girare la ruota è, in effetti, quella volontà di poter disporre di se stessi senza essere trascinati dall’onda lunga di pensieri ed emozioni.
Di più, mi pare interessante l’idea di poter “disporre” di sé stessi senza cedere alle facili chimere e alle sollecitazioni esterne. Da appassionata dei testi sacri, colgo con emozione le novità che questo mondo orientale – a me ancora abbastanza ignoto – ha da offrirmi.
La qualifica di chakrawartin – questo re dei re – se dovessimo “aggiornarla” la potremmo affiancare a Colui il quale sa pensare con la propria testa e sa governare il suo corpo/mente.
N questo senso la proposta mi affascina e mi consente di calare nel mio quotidiano una pratica che ha le sue ripercussioni sulla mia interiorità.
Riuscire a praticare comprendendo quello che si sta facendo fa uscire da uno stato di sudditanza per elevarci a qualcosa di superiore. Non vorrei essere fraintesa, non intendo superiore agli altri, ma superiore alle proposte che possono distogliere da una centratura.
Kinesiosfera e giusta distanza
Il mio percorso all’interno del mondo dello yoga è legato, come spesso mi è capitato di dire, non al desiderio di diventare insegnante (e nemmeno alla necessità di diventarlo, in questo sono fortunata perché ho un lavoro), bensì al desiderio di approfondire un’”ideologia” che negli anna mi ero costruita e che percepivo come potenzialmente importante per me. Affinando la pratica, entrando mano a mano dentro questo mondo, mi rendo conto che questo sta accadendo. Noto dei cambiamenti dentro la mia vita e questo succede non grazie allo yoga (pratico da vent’anni) ma grazie alla consapevolezza che sto acquisendo in questa scuola.
A questo proposito leggo le varie lezioni mettendole in relazione con la mia vita. Nella prima lezione di Hathavidyā sto approfondendo il significato di kinesiosfera. Proprio nel mio lavoro il concetto di kinesiosfera è interessante, sposto l’attenzione anche sull’osservazione del corpo degli altri, sugli atteggiamenti collegati al loro stato emotivo e mentale,. Mi si è accesa la oramai consueta lampadina di fronte alla percezione di ostacoli che all’apparenza sono invisibili.
Forse – ed è una domanda che inizio a pormi – con la pratica sto cominciando un percorso di consapevolezza corporea fino a ieri impensabile. Sto imparando a percepire il corpo e talvolta mi viene da sorridere e penso: dove sono stata fino a quattro anni fa? Solo dentro la mia testa?
COSCIENZA E CONSAPEVOLEZZA
Si ritorna con il tema della consapevolezza, quella corporea. Percepiamo il nostro corpo nella misura in cui ci accorgiamo che esso esista, ma la percezione della totalità del nostro corpo è pressoché impossibile, o almeno fino a quando la nostra pratica non ci consente di stare a lungo assieme al corpo, nel corpo. La nostra cultura di sicuro ci ha deviato, nel senso che si continua a parlare di corpo pensandolo costantemente come un involucro da abbellire e addobbare o come una macchina che deve funzionare al meglio per farci andare avanti. Per la prima volta ho incontrato un concetto di corpo totalizzante, dove carne non è intesa in senso greco e altrettanto dicasi per il cuore.
Percepire il corpo e imparare a stare con il proprio corpo è una delle mie tipiche, ormai note, lampadine accese. C’è un elemento ancora più interessante che mi è comparso davanti, grazie alla seconda lezione. Il concetto di consapevolezza vs. coscienza. Sono una curiosa per natura e andando a recuperare letture già fatte in passato, le ho riviste alla luce di nuove teorie e nuove consapevolezze. Ho ripreso in mano, dopo anni, i testi di Guénon, letti per curiosità filosofica ma evidentemente non compresi a fondo. Ho trovato una risposta a qualcosa che in qualche modo mi disturbava: la possibilità della coscienza individuale.
Un passaggio è stato particolarmente illuminante: “la psicologia non deve occuparsi di ciò che potremmo chiamare la “coscienza fenomenica”, cioè la coscienza considerata esclusivamente nei suoi rapporti con i fenomeni, e senza domandarsi se essa è o non è l’espressione di qualcosa di ordine diverso che, per definizione, non appartiene più all’ambito psicologico”[1]. Finalmente ho capito.
Non sono psicologa, sono psicopedagogista ma ovviamente continuo a navigare dentro il mare della psicologia, non riuscivo a stare dentro la definizione di coscienza e continuavo a cozzare contro i miei costrutti. Dentro il mondo dello yoga la coscienza non è quell’intrapsichico che intende la psicologia.
L’ho capito, mi sono tolta un peso e allora posso aprire maggiormente la mente a nuovi apprendimenti.
Mi ha fatto riflettere molto questa cosa, non da ultimo il fatto che i nostri schemi (i miei) sono incredibilmente rigidi, gabbie dalle quali si fa davvero fatica a uscire. Per questo Hathavidyā lavorando sul corpo in realtà lavora su tutto il resto. Sono monotona, ancora grazie e non sorridere per le mie lampadine, io te le passo tutte…
[1] René Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Adelphi, 1996, pag.69Immobilità e perennità
Nella terza lezione viene proposto di lavorare sullo schema corporeo, anzi sugli schermi i corporei perché è innegabile che ne abbiamo parecchi e per la maggior parte acquisiti nonostante noi. La nostra inconsapevolezza fa sì che mettiamo in atto movimenti che non sono volutamente innescati, che avvengono senza che noi lo vogliamo, ci sono e basta. Nel momento in cui arriva una riflessione su questo punto è inevitabile sentire l’inadeguatezza del proprio corpo che si approccia allo yoga. Piano piano si percepiscono gli errori, le impostazioni errate, le tensioni che inevitabilmente si creano nel momento in cui si vorrebbe correggere. Credo sia ovvio sentirsi come pesci fuor d’acqua alla ricerca di perfezionamento.
La fatica di non giudicare
Mi rendo conto che nel tentare di perfezionamento scappa un giudizio su di me, sul mio corpo, sulle mie posture, sui miei schemi. Questa è stata forse la fatica più grossa di questa lezione. Capire che la postura e lo schema non sono corretti e non riuscire a dirmi : “accetto questa cosa, la osservo e ci lavoro”.
Il giudizio su di se arriva da lontano, su questo c’è piena consapevolezza, scardinare non è semplice anche se necessario. È un compito che voglio portare a termine, imparando che sono ciò che sono e lavorandoci posso modificare. E parlo di schema corporeo consapevole che riflette anche molto altro.
Nell’osservazione del mio schema dunque ho provato ad eseguire i “compiti” cercando di accettare senza giudizio e poi lentamente arrivare a percepire pezzetto dopo pezzetto i miei muscoli, i miei nervi, le mie ossa.
Ma quanto è difficile! Sarà un lavoro lunghissimo, di anni e anni ancora.
Non mi spaventa, sono pienamente consapevole che ogni piccolo pezzettino sarà una conquista, non ho fretta, nessuno mi rincorre.
Immobilità
In questo lavoro quotidiano con la pratica, che altro non è se non un lavoro con me stessa, su di me stessa, il tema dell’ immobilità è potente. Ero convinta di saper stare immobile!! Ora ci rido sopra, immobile è quasi impossibile, il solo respirare e sentir battere il cuore e sentire fluire il sangue nelle vene e nelle arterie impedisce l’immobilità. Ma fino a che non ci pensi, fino a che non ci porti la mente su questa cosa, puoi vivere con la convinzione di saper stare immobile.
Credo fermamente che lo yoga potrà portarmi a vivere in uno stato di immobilità, quando non lo so, ma ci si può arrivare. Con tanta consapevolezza corporea, con tanta fatica intellettuale, prima di tutto.
Uscire dagli schemi è il compito più grosso, schemi dentro la testa prima che dentro il corpo, dentro una cultura, una pretesa di farci diventare diversi da quello che potremmo essere, conformi.
Di positivo, anzi di fermamente positivo credo ci possa essere il desiderio di superare questo stadio per progredire, un desiderio non in senso lacaniano, psicanalitico, bensì un desiderio consapevole e molto concreto, corporeo.
Dall’immobilità la perennità
Come ricorda la dispensa noi possiamo vivere l’immobilità quando siamo morti, quando cioè tutte le funzioni vitali sono concluse e non vi è più movimento dentro il nostro corpo, ma entriamo in quella dimensione cosmica che fa sì che diventiamo perenni. Quanto mi piace questa cosa, questo concetto di perennità! Questo essere fatti delle stesse molecole del creato intero e anche al di là, oltre la natura, dentro un universo fatto di spazi vuoti e pieni, aria e luce…
Come direbbe Margherita Hack siamo fatti della sostanza delle stelle, di polvere di stelle. Questa idea di perennità pacifica ogni assurdità su presunti futuri post mortem, mette a posto le cose, riporta chiarezza alla fonte, riequilibra il pieno assetto molecolare dell’universo. A me piace pensarlo così probabilmente fuori dall’ennesimo schema. Sarà quella la vera e perenne immobilità, forse anch’essa apparente. L’universo sembra essere in continuo movimento….
Non ho capito e la potatura delle rose
La proposta di prendere la posizione per gradi aiuta il corpo a posizionarsi meglio e a imparare in qualche modo ad atteggiarsi in previsione di una staticità. Saper utilizzare il corpo significa poterlo osservare per davvero e distinguere dalla percezione l’osservazione.
Krama aiuta ad attivare la percezione, prima per piccoli settori poi per parti un po’ più ampie e via via, lo spero, si percepirà il corpo intero. Sono ancora agli albori e mi accontento di osservare passo passo e attraverso questa osservazione passare alla percezione. La strada è lunga ma tutto sommato non credo di avere proprio nessuno che mi spinga ad accelerare.
Durante la lezione ho messo in pratica quanto l’insegnante proponeva, ho provato e riprovato cercando di fare attenzione alle sue parole e ancor più alla dispensa che avevo letto per bene.
Ho trovato molto interessante mettere assieme l’una e l’altra cosa ma, in una posizione in particolare mi sono bloccata. O meglio, ho barato.
Il Bhujanga incompreso
La proposta è stata quella del Cobra facendo lavorare la muscolatura che parte dagli alluci, sollevarsi senza interferenze di altri muscoli e cercare di creare quella linea che aiuta a prendere forza dagli alluci. L’ho fatto a modo mio, spingendo sulla pancia, inarcando con la contrazione dei glutei, tentando di fare del mio meglio ma…
In realtà so che stavo barando e non riuscivo a farne a meno. La lezione si è conclusa ed io sono rimasta con il mio compito per casa che mi sono data, riuscire ad eseguire correttamente il Bhujanga.
La voce del maestro
Come spesso accade si sta tutto il giorno a praticare yoga ma poi nelle giornate successive, ci si accontenta dei 40 minuti al mattino o prima di cena e il mio proposito si è affievolito. Roberto ha poi inviato un video che ha messo in luce il mio problema: non ho capito che cosa dovevo fare e ancora peggio non ho capito che cosa dovevo muovere, sciogliere, attivare. Ma non mi volevo render conto di non aver capito.
Adesso, grazie al video che mi ha illuminato, ho capito di non avere capito e il mio compito è doppiamente arduo, capire bene che cosa non ho capito.
La potatura delle rose
Jung diceva che nulla è per caso, soprattutto se impari ad accendere la curiosità su di te e su quello che stai facendo. Sabato mattina il cielo limpido mi ha invitato a stare all’aperto e a dedicarmi alle mie rose. È tempo di potatura, così mi sono attrezzata e sono uscita in giardino. Ho iniziato a potare i cespugli e chinandomi ho sentito un fastidio alla spalla mentre facevo forza con le mani sulle cesoie; mi si è parato davanti al volto il monito di Roberto “capisci quello che stai facendo?” Ed ho iniziato ad osservare il mio corpo. Che cosa stavo sbagliando? Una volta capito l’errore ho attivato altri muscoli, ho rilasciato la zona delle scapole, ho insomma utilizzato le indicazioni del maestro che mi hanno consentito di portare a termine la potatura di tutti i miei rosai senza intorpidire nulla.
Forse mi si può chiedere che cavolo c’entra questa riflessione con lo yoga, io sostengo che tutto c’entra. Per me yoga è vita, è quotidianità, è comprensione di ciò che mi accade e utilizzo di tutte le risorse che mi dona per vivere al meglio.
Le mie rose stanno bene, la mia schiena e le mie braccia stanno bene, adesso penso di essere pronta a riprendere in mano la pratica cercando di capire bene quello che non ho capito
Cidakasha, spazio interno ed enstasi.
“L’anatomia occidentale è oggettiva, descrive strutture visibili e tangibili, disseziona, isola, classifica. L’anatomia yogica, non si basa sulla dissezione dei cadaveri. Essa è soggettiva, imperniata sull’osservazione interiore di processi che avvengono nel corpo umano vivente e cosciente”André Van Lysebeth, “Pranayama, la dinamica del respiro”, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1973
E’ dalla prima annualità di Kundalini (prima per me) che mi interfaccio con il mio spazio interno, con quel Cidakasha che la mia mente utilizza per espandere uno spazio e al contempo lo crea.
In quella prima annualità ho scoperto che avevo una potenzialità mai incontrata prima e comprendere che la mente corrisponde in qualche modo a quello spazio interno, lo crea lo espande ed è contestualmente; è stato un apprendimento molto significativo.
Da quella prima annualità l’incontro con il mio Cidakasha è stato costante, si è approfondito fino a non pensarlo più. Ci si lavora.
Ho scoperto che lavorandoci si può arrivare ad acquisire una Shakti, una sorta di forza interna molto potente che consente di andare oltre, al di là di una sovrapposizione tra spazio interno e mente. Il corpo in tutto questo diventa uno strumento utilizzato dalla mente stessa.
La capacità di concentrazione sul corpo fa si che si possa creare uno schema corporeo atto a favorire i passaggi necessari per andare a trovare un centro, che ancora mi risulta lontano perché ritengo che debba passare molta acqua sotto i ponti e fare molta pratica prima che io riesca a comprendere il senso di questo centro.
Cercare un centro
Sembra una banalità, e forse lo è, vista la mia preparazione molto scarsa in questi piccoli quattro anni di scuola; ritengo che ci vorranno ben molti di più per vivere ciò che al momento la mia parte cognitiva cerca di catturare. Comunque, in questa mia ricerca, spinta dalle sollecitazioni di questa annualità di Hathavidya, dove l’osservazione del corpo presuppone quella possibilità di esplorare e capire ciò che sta “dentro” mediato da ciò che sta fuori, mi sono ritrovata a riprendere alcuni testi di Eliade e in particolare la ricerca di quel centro che è possibile trovare attraverso una concentrazione forte su di sé.
Non voglio permettermi di entrare in concetti ancora troppo grandi per me, come la concentrazione meditativa che potrebbe condurre a pianeti ancora inesplorati, ma mi interessa l’idea dell’identificazione con l’oggetto meditato che Eliade chiama “enstasi”[1].
Enstasi non è estasi ma…
Enstasi è la condizione in cui si sta in se stessi e viene distinta pienamente da quella condizione di rapimento che porta fuori da sé. L’”enstasi” si distingue dall’estasi, dall’esperienza di rapimento fuori di sé che spesso viene spacciato come elemento caratterizzante la meditazione.
Mi piace il termine “enstasi” proprio perché lo associo all’esperienza che sto facendo con la scuola, la capacità di poter stare con me stessa, pienamente dentro me stessa.
Ma Eliade intendeva “En-stasi” come raggiungimento della massima espressione della pienezza. Quindi, una volta ancora, lontano dalla mia effettiva capacità di starci, perché ci vuole tanta pratica e tanta esperienza per imparare ad essere dentro senza andare fuori.
Questo stimolo ad imparare a osservare attraverso la pratica, imparare a percepire il corpo ed essere corpo, è affascinante e complicato. Nelle proposte di pratica delle lezioni di quest’anno, la possibilità di stare nella massima concentrazione per percepire/essere corpo ci dà il valore primario dello hatha yoga.
Hatha yoga e hathavidya
L’osservazione del corpo, di questo corpo che va rafforzato con il tapas, il fare esperienza di queste dinamiche che attraverso la concentrazione ci portano ad elevare l’esperienza fino a farla propria, elemento costitutivo della quotidianità, ci pone di fronte alla sfida di non relegare l’esperienza yogica alla chiusura della stanza dove abbiamo steso il tappetino per praticare. Lo yoga dovrebbe dare una svolta alla vita, alle esperienze del quotidiano; quell’osservazione delle dinamiche respiratorie dovrebbero portarci a imparare a respirare meglio; le osservazioni dello schema corporeo dovrebbero insegnarci a muovere in maniera diversa, dove la consapevolezza corporea mista alla capacità di concentrazione dovrebbe portare al significato della pratica. Essere persone diverse, nuove, più concentrate sul significato di una vita vissuta alla luce dell’appartenenza ad un Tutto.
E’ qui che si aggancia il Samkhya, lo studio filosofico di storie antiche che si intrecciano con l’oggi e danno significato alla piccola storia di ognuno.
La sfida è quella di non stare dentro il mondo dello yoga per imparare qualcosa, ma per diventare qualcuno/qualcosa.[1] Mircea Eliade, “Tecniche dello Yoga”. , Bollati Boringhieri, Torino, 2003
LA BUCCIA, LA POLPA E IL NÒCCIOLO
Come il fuoco che arde riduce in cenere ciò che lo alimenta, o Arjuna, così il fuoco della saggezza riduce in cenere tutte le opere. Non si conosce su questa terra mezzo di purificazione che non sia pari alla saggezza. Colui che avrà raggiunto lo yoga, troverà questa verità, con l’andar del tempo, nel suo proprio Sé, come qualcosa che gli appartiene.
Bhagavadgītā IV: 37, 38
È ovvio che la nostra mente venga agganciata da qualcosa, la mia spesso risulta agganciata dalle parole. In questa lezione, la sesta dell’annualità di hatha vidyā, la frase che mi ha agganciato è stata quella relativa alla buccia e al frutto. Si parla di âsana, si parla di posizioni e di postura.
Poteva sembrare una sorta di riflessione sul nulla, ma posizione e postura molto spesso vengono utilizzate come sinonimi anche nel mondo dello yoga – non certo nella nostra scuola.
Dunque la posizione è quella forma che viene data al corpo. La buccia del frutto, la parte esterna visibile da “fuori”. Se penso alla posizione penso a tutto quello che mi mette in relazione con l’esterno, l’aria che accarezza il mio corpo, la pelle che è il veicolo di contatto con l’esterno, quella buccia appunto che rappresenta il “fuori”.
Ci aggancio il sentire da fuori, immagino che io mi percepisca guardandomi, non una percezione fatta di consapevolezza, ma una visione determinata dalla coscienza. La posizione è quello che è. Se ci metto vidyā, la posizione è l’involucro che emerge da un modo di pormi nello spazio. Tutti possono vedere la mia posizione, nessuno che non sia io può sentire la posizione.
E arriva la postura. Mi piace pensare alla postura come alla polpa, cioè quello che sta dentro la buccia, dentro la posizione. È un sentire il corpo da dentro, impostare la forma a partire dal sentire muscoli, organi, nervi e respiro, la costruisco io da dentro e la sento dentro. È fatta di consapevolezza, di possibilitá di osservazione dal di dentro, con la capacitá di aggiustamento per andare a creare quella posizione che il mio corpo consente di creare. Solo conoscendo il mio corpo, il mio limite, le mie possibilitá, i miei punti di forza e di debolezza, io posso attivare delle posture per costruire una posizione. Così è una cosa che mi appartiene e che riguarda me e soltanto me. È la polpa, ovvero la sostanza di cui è fatto il mio lavoro, un lavoro posturale, consapevole, raggiungibile dopo aver osservato con attenzione ciò che esiste.
ÂSANA E PRÂNA
E arrivo al terzo elemento, che a mio avviso dá il senso a tutto questo. Il nocciolo o seme. Non ha senso posizione e postura che non si trova un “dentro”, un seme vitale che anima tutto questo. A questo punto io vedo “âsana”, quando cioè la posizione contiene la postura o le posture che consentono che vi sia prâna, ovvero la forza vitale, il germe che genera.
A partire da queste considerazioni che mi hanno molto solleticato durante la lezione, mi sono connessa con il significato di tutto questo. La pratica aiuta a stare dentro le cornici che gli insegnanti ci danno, imparare ad ascoltare il corpo dentro e fuori, imparare a stare con il proprio respiro ed utilizzarlo dentro e fuori, imparare a riconoscere il proprio limite e le proprie potenzialità.
Tutto questo trova però il suo centro non tanto nella pratica di per sè, importante finché si vuole ma certamente limitata, a mio avviso trova senso nel momento in cui il riconoscere tutte queste piccole o grandi cose danno vita e significato al quotidiano.
Potrei dire che vedo la filosofia e pratica yoga come una continua metafora dell’esistenza, dove non serve a chiedersi dove vado, come vado, quando vado, piuttosto come sono, cosa vedo, dove mi colloco.
Non posso soffermarmi su singoli aspetti se non riesco a collegare e intrecciare gli stimoli dati, per questo la lezione sesta, che ci ha fatto riflettere una volta ancora su schemi, posture e posizioni, âsana e respiro, la vedo inserita inevitabilmente nel Samkhya.
ÂSANA E SĀṂKHYA
La ricerca della personale posizione riempita di consapevolezza corporea non è forse la dichiarazione di voler trovare la propria originale collocazione nel macrocosmo, consapevoli di essere un microcosmo?
Riflettere sul senso del limite, accettarlo per esser poi pronti a superarlo, non è forse cercare il significato di Ahamkara?
Trovare il proprio centro e imparare a dire «Io sono», cercando di escludere tutti gli aggettivi che inevitabilmente i condizionamenti sociali affibbiano, tentando di arrivare il più possibile a poter dire so-ham, non è equiparabile a ricercare l’asana personale, senza stare a copiare la forma di nessuno?
È creare consapevolezza rispetto alla ricerca di ciò che può far bene al nostro organismo, il cibo sano, una vita il più possibile vivibile, non è forse andare a mettersi in relazione con Prakriti?
Credo di aver elaborato questo dalla sesta lezione, e la riflessione è partita proprio dalla pratica, dalla ricerca della posizione attraverso le posture adeguate per poter vedere se riesco, in piccola parte a metterci un po’ di prâna.
Solo un pochino, in modo da pensare che il piccolo frutto che tento di diventare possa avere una buccia, un po’ polpa ed un nocciolo. Forse fra qualche dozzina di dozzine d’anni qualcosa accadrà. Intanto provo a starci in questa pratica quotidiana e ad assumere una bellissima frase contenuta nella dispensa: gli âsana sono in essenza delle forme riempite di yoga.
LA PELLE COME CONSAPEVOLEZZA DI UNA TOTALITÀ DI ESPERIENZA
“All’inizio della vita l’essere accarezzato, abbracciato e coccolato, rende sensibili le varie parti del corpo del bambino. Lo aiuta a costruire un’immagine corporea sana e promuove lo sviluppo dell’amore attraverso il rafforzamento del legame tra il piccolo e sua madre”(Anna Freud)
La pelle è un organo – il più esteso del corpo umano – di percezione, relazione e comunicazione. Mette in contatto noi e gli altri, il nostro spazio interno con il mondo esterno, ci permette di stabilire confini – sensoriali e relazionali – molto diversi. La pelle è un’espressione della nostra immagine e rappresenta come viene vista e vissuta dagli altri. Come ci ricorda la dispensa è il confine tra interno ed esterno, tra il nostro Io e tutto il resto.
Un mio collega che si occupa di psicosomatica mi insegna che la pelle è quella che parla molto più di altri organi, è quella che sfoga interiorità difficili, non solo provenienti dal mal funzionamento di organi interni, anche la psiche traduce spesso suoi malesseri attraverso espressioni cutanee.
E la pelle è difficile da percepire, è più semplice stare “dentro” che a fior di pelle. Nello yoga imparare a percepire la pelle ha una sua strada da percorrere, probabilmente iniziando da ciò che sta sotto per poi giungere alla neutralità della percezione stessa.
Non posso non conciliare mie esperienze di vita con lo yoga, disciplina che via via mi sta trasformando e si sta trasformando come parametro di distinzione tra ciò che sono e ciò che posso diventare ed essere. Per facilitarmi il compito mi sono concessa di andare indietro con le sensazioni, sono solo ricordi ma averli presenti come sensazioni sensoriali mi è stato utile per lavorare sulla percezione della mia pelle. Il lavoro svolto quest’estate con il counseling yoga ha sicuramente aiutato quanti volevano coniugare l’esperienza del pregresso con l’annualità Hatha Vidya. In quell’esperienza estiva si poteva regredire stando dentro o fuori, andando a cercare lontano dentro o ontano fuori. Una bella sperimentazione che mi sono concessa, a dire il vero in maniera un po’ egoistica, con la regressione fatta da sola e non con un compagno o compagna, è stata proprio quella del recupero della sensorialità infantile. Adesso percepisco molto meglio la mia pelle, in maniera non voglio dire neutrale ma è come se riuscissi ad associare la percezione al termine “pelle”. Forse è un nuovo automatismo, di fatto prima non mi succedeva, non riuscivo a sentire la pelle senza tirare un muscolo o muovere una mano, un dito, ora si.
Ho dedicato del tempo, mi è sempre piaciuto sperimentare e sperimentarmi e la proposta di Roberto Laurenzi di quest’estate ha stimolato la mia curiosità più che nei confronti degli altri – una tecnica tutto sommato abbastanza nota in chi si occupa di counseling e approcci psicologici – bensì nei confronti di me stessa.
Allora la mia sperimentazione è partita con l’idea non mia ma che parte da un bel pensiero di Leboyer, auote che amo molto che approccio che seguo quando lavoro nell’ambito della prima infanzia. “Bisogna nutrire i piccoli. Non vi sono dubbi.Non solo il loro ventre, ma anche la loro pelle.In questo oceano di novità, d’ignoto, bisogna fargli riprovare sensazioni passate che inducano pace e sicurezza. Questa pelle, questo dorso non hanno dimenticato (…)Essere portati, cullati, carezzati, massaggiati, sono tutti nutrimenti per i bambini piccoli, indispensabili, come le vitamine, i sali minerali e le proteine, se non di più. Se viene privato di tutto questo e dell’odore, del calore e della voce che conosce bene, il bambino, anche se gonfio di latte, si lascerà morire di fame». (F. Leboyer)
Leboyer si riferisce ai primissimi tempi, ai primi mesi di vita, sono infatti primi sei mesi che fanno si che il bambino si identifichi con le esperienze tattili che compie in quel periodo. Io non volevo andare così lontano ma volevo arrivare a provare nuovamente la sensazione del contatto delle mani di mia madre sulla mia pelle. Un ricordo troppo lontano per poterlo catturare, avevo solo 13 anni quando è morta, così ho approfittato della proposta di Roberto e mi sono lanciata.
E da lì, dal recupero di quel ricordo, molto vivo tra l’altro, molto presente, ho come sentito attivare la possibilità di riconoscere la mia pelle. Che posso dire?Forse non è molto congruo con il tema della settima lezione, infatti ci ho messo un bel po’ prima di scriverlo, però yoga per me è esperienza, Hatha Vidya è consapevolezza del corpo. Ho fatto una mia fusione, forse non corretta, ai maestri il compito di richiamarmi alla correttezza della comprensione. Vi offro quello che ho e vi ringrazio, al solito.
OSSA: SAGGEZZA ANTICA DENTRO DI NOI
Contrariamente alle mie abitudini infilo due lezioni all’interno di una sola relazione, il fatto non è dovuto a mancanza di tempo o altro bensì ad una precisa consapevolezza. Lego queste due lezioni facendole diventare un unico insegnamento dettato da una ulteriore scoperta nella strada di approfondimento e studio dello yoga.
La percezione muscolare mi risulta abbastanza facile, vuoi perché pratico da molti anni (mi avvicino ai 25) vuoi perché ho sempre fatto sport e non sport qualsiasi. Ho praticato la danza per moltissimo tempo e la centratura sul corpo e proprio sui muscoli è sempre stata al massimo, una centratura diventata molto consapevole nel momento in cui lo yoga ha affiancato la danza. Grazie allo yoga ho abbandonato il classico per sviluppare le tecniche Graham, un interessante lavoro sul corpo e sull’espressività. Riguardo ai muscoli e alla consapevolezza sul loro utilizzo e su come li ho percepiti si affianca anche un’altra mia grande passione: l’alpinismo. Quando si arrampica, quando si è appesi ad una parete, si attivano canali percettivi fantastici, ogni minimo movimento diventa interessantissimo, ogni piccolo spostamento è consapevole. Anche in questo caso lo yoga mi ha messo nella condizione di ascolto di me. Della montagna, di me e della roccia che è viva, è maestra. Dunque la percezione muscolare ce l’avevo, cetonon così profonda e intima, sempre stimolata dal movimento, comunque non era materia avulsa totalmente al mio vivere. La scoperta folgorante ha riguardato invece le mie ossa.
Ovviamente mi è capitato di soffermarmi più volte a sentire le ossa, sono abbastanza magra e su certe ossa non ci vuole troppo per sentirle fisicamente: le clavicole sporgono, le costole sono abbastanza visibili sotto la pelle, le creste iliache pure. Quando ho rotto ulna e radio, ero ragazzna, ricordo molto bene che ho provato la sensazione strana di ossa che vogliono uscire dalla carne, dal muscolo. Qualche anno dopo ho letto Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse e mi è rimasta scolpita una frase che spesso ricordo e che inevitabilmente è tornata quando abbiamo lavorato con la pratica sulle ossa: “Le ossa vogliono staccarsi, non vogliono rimanere con noi”.
Dunque ossa intraviste e percepite nel momento del forte dolore, ma poi in qualche modo dimenticate o meglio non considerate con consapevolezza. Dunque in queste ultime lezioni ciò che mi ha coinvolto molto è stato il pensiero sulle ossa come pure, bianche, antiche, solide, sattviche. Non le avevo mai pensate così. Ritenute sempre importanti “solo” come impalcatura, ho incontrato una nuova consapevolezza, una nuova forma di percepirle, un interesse nuovo e bello, in qualche modo esaltante.
E dopo aver percepito questo nuovo modo di sentire le mie ossa l’equilibrio è stato istantaneo. Che cosa strana, che bello! Mi sono come sentita piantata a terra, come avessi riscoperto una radice, un muladhara più interessante, un punto di partenza da cui poi allontanarsi per salire più in su.
Questa la lampadina accesa su vidyā legata la corpo, ma mi premeva dire due parole su tutta l’annualità.
Hatha vidyā è stato per me l’anno di una nuova strada, come uno spartiacque tra l’essere allieva che pende dalle labbra dei maestri e una persona che pian piano inizia a camminare con le proprie gambe perché ha trovato qualche strumento da poter mettere effettivamente in pratica.
Anche grazie all’esperienza estiva, sento che questa annualità mi ha fornito elementi fondamentali per collocarmi costantemente dentro la quotidianità con la possibilità di stare centrata ( iniziare a farlo), di essere presente, di entrare in relazione con gli altri in maniera diversa.
Come dire, una vidyā che si spalma sulle ore e minuti le giorno, puro richiamo ad un centro costante che trasforma ora per ora la vita.
Ovviamente è un timido inizio, come sono solita sostenere, un timido inizio per capire pian piano verso dove stia andando la mia strada verso la consapevolezza.
Grazie a voi maestri e grazie a tutti i colleghi studenti di questa meravigliosa scuola, la strada si sta delineando e un piccolo e timido sole inizia a riscaldare